Molti mi hanno scritto che parliamo poco di pesca rispetto al tema agricoltura e per questo dedico questo “post” al tema “la politica della pesca”. Partiamo dicendo subito che dal 2009 il settore della pesca è un’area di competenza esclusiva dell’Unione europea. La Politica Comune della Pesca (CFP) definisce per ciascun stato membro le lo sforzo di pesca (prelievo) massimo sostenibile per ogni stock e promuove l’industria della pesca mediante l’utilizzo di vari strumenti di regolazione e sostegno del mercato. Questi i motivi per cui gli SM pochi margini di manovra possono avere e conseguentemente anche il Parlamento pochi margini di manovra ha, mentre il Governo, tramite DM può emanare i decreti attuativi. Ma facciamo qualche passo indietro.
Il 13 luglio 2011, la Commissione europea ha trasmesso al Parlamento e al Consiglio le proposte per la riforma della politica comune della pesca (PCP). Sulla base delle disposizioni contenute nel Trattato di Lisbona relative al funzionamento della UE, la nuova PCP sarà il risultato della codecisione tra Consiglio e Parlamento. Vene così approvato il Regolamento 1380/2013 e le successive modifiche. Questi atti poi diventano applicativi attraverso i DM del Mipaaf disponibili a questi link.
La PCP mira a garantire che la pesca e l’acquacoltura siano sostenibili dal punto di vista ecologico, economico e sociale e che rappresentino una fonte di alimenti sani per i cittadini dell’UE. L’obiettivo è promuovere un’industria ittica dinamica e garantire alle comunità di pescatori un tenore di vita adeguato. Sebbene sia importante ottimizzare le catture, occorre porvi dei limiti. È necessario garantire che le pratiche di pesca non impediscano ai pesci di riprodursi. L’attuale politica impone di fissare per il periodo 2015-2020 dei limiti di cattura sostenibili che assicurino nel lungo termine la conservazione degli stock ittici. La nuova PCP intende riportare gli stock ittici a livelli sostenibili, porre fine alle pratiche di pesca che comportano uno spreco di risorse e creare nuove opportunità di occupazione e di crescita nelle zone costiere. Per raggiungere questo obiettivo la nuova politica prevede il divieto dei rigetti in mare, il rafforzamento dei diritti nel settore ittico, il decentramento del processo decisionale, il potenziamento dell’acquacoltura, un sostegno alla piccola pesca, il miglioramento delle conoscenze scientifiche riguardanti lo stato degli stock e l’assunzione di responsabilità nelle acque dei paesi terzi attraverso accordi internazionali dell’UE. Il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) è lo strumento di finanziamento che fornirà sostegno all’attuazione della riforma della politica comune della pesca e aiuterà a sviluppare l’economia blu in Europa.
In Commissione Agricoltura, tra un decreto e l’altro abbiamo portato avanti battaglie puntuali sulla pesca tramite risoluzione che “impegnano il Governo”, proprio perchè i margini di manovra per quanto detto sopra sono molto limitati e che riporto sotto.
Sul fermo pesca siamo intervenuti in merito ai ritardi nei pagamenti dei premi previsti agli imprenditori ittici, perchè in un momento di crisi in cui versa il comparto ittico (diminuzione della risorsa ittica disponibile con conseguente diminuzione della produttività e dei ricavi, aumento dei costi di produzione, difficoltà di accesso al credito, eccessiva pressione fiscale) non è possibile bloccare tali risorse. Il fermo pesca è una misura che va mantenuta e che rappresenta un indispensabile strumento di lotta allo sfruttamento delle risorse ittiche; d’altra parte interrompe l’attività lavorativa dei pescatori rendendo, in alcuni casi, il premio l’unico mezzo di sostentamento e rappresentando quindi una risorsa fondamentale. Il fermo pesca deve essere fatto per aree vaste, in maniera coordinata e per tipologia di specie.
In base all’articolo 2 del Reg. UE 1380/2013, viene posto come obiettivo cardine della politica comune della pesca il rispetto del tasso di rendimento massimo sostenibile (MSY), obiettivo che deve essere ottenuto entro il 2015 ove possibile, e progressivamente al più tardi entro il 2020 per tutti gli stock ittici. All’ art. 15 viene indicato l’obbligo di sbarco per «tutte le catture di specie soggette a limiti di cattura e, nel Mediterraneo, anche le catture di specie soggette a taglie minime quali definite nell’allegato III del Reg. UE 1967/2006, effettuate nel corso di attività di pesca nelle acque unionali, o da pescherecci unionali al di fuori delle acque unionali in acque non soggette alla sovranità o alla giurisdizione di Paesi terzi, nei luoghi di pesca e nelle zone geografiche elencati di seguito sono portate e mantenute a bordo dei pescherecci, registrate, sbarcate e imputate ai contingenti, se del caso». Per rendere possibile l’obbligo di sbarco a partire dal 1o gennaio 2015 è necessario che gli SM, anche sulla base di un approccio decisionale maggiormente regionalizzato, cooperino e ne elaborino le effettive misure di attuazione. Per quanto riguarda la pesca al tonno rosso, vige un totale ammissibile di cattura (TAC) stabilito annualmente dall’ICCAT. Gli Stati membri dell’Unione europea coinvolti attivamente nella pesca di questa risorsa sono: Spagna, Francia, Italia, Grecia, Portogallo, Cipro, Malta e Croazia. Gli 8 Paesi condividono il contingente dell’UE, di cui Spagna e Francia detengono le quote maggiori. Nel 2014 il contingente dell’Unione europea è stato aumentato del 5 per cento, pari a 7.939 tonnellate, ed è probabile un aumento di quote anche per il 2015. Su questi punti abbiamo chiesto al Governo di definire il rendimento massimo sostenibile entro i termini stabiliti, posto che il mare Mediterraneo è il bacino che presenta il 91% degli stock ittici sovra sfruttati e a promuovere presso il Consiglio dell’UE la conclusione degli accordi di cooperazione tra Stati membri in modo da raggiungere l’implementazione dei piani gestione degli sbarchi nelle aree di pesca condivise entro il termine stabilito e a stabilire un aumento delle quote di cattura del tonno rosso per la campagna 2015, privilegiando la redistribuzione a favore dei sistemi di pesca più sostenibili, in particolare quelli inclusi nella piccola e media pesca.
Quando la Commissione europea ha chiesto formalmente all’Italia di conformarsi alle norme comunitarie in materia di pesca nel Mediterraneo per adottare piani nazionali di gestione per le attività di pesca condotte con reti da traino, sciabiche da natante, sciabiche da spiaggia, reti da circuizione e draghe all’interno delle rispettive acque territoriali, perchè era in ritardo già dal 31 dicembre 2007, siamo intervenuti per sollecitare tale situazione in quanto i piani nazionali sono strumenti importantissimi per uno sfruttamento sostenibile delle risorse alieutiche nel Mediterraneo, mare in cui, tradizionalmente, non si applica la gestione della pesca basata sui contingenti. In relazione alla programmazione del Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) abbiamo chiesto di predisporre il programma operativo nazionale in modo da superare le criticità evidenziate nell’Accordo di partenariato da parte della Commissione dell’Unione europea.
I dati ci dicono che decenni di politiche volte a favorire la pesca industriale hanno fortemente danneggiato le risorse marine, fino a provocare, in alcuni casi, dei veri e propri stermini di stock ittici, come più volte denunciato anche da associazioni e organizzazioni scientifiche (studio recente dell’Hellenic Centre of Marine Research, apparso su Current Biology). Secondo la Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), il prodotto della pesca negli scorsi decenni è andato crescendo, a livello globale, fino al 1996, quando ha raggiunto il picco di produzione con 86 milioni di tonnellate. Da allora la quantità di pescato è rimasta costante intorno a circa 80 milioni di tonnellate all’anno. La stessa Commissione europea per gli affari marittimi e la pesca, attraverso la pubblicazione di un report nel mese di giugno 2014, ha lanciato l’allarme sul rischio estinzione delle risorse ittiche dei mari, in particolare del Mediterraneo: sovra-sfruttamento pari al 96% degli stock ittici di acque profonde, mentre, per le specie pelagiche come sardine e acciughe, lo sfruttamento eccede di almeno il 71%.
Come noto, il fermo biologico è una sospensione temporanea delle attività di pesca e vale come strumento di tutela delle risorse ittiche tuttavia, il calendario del fermo biologico nel nostro Pese non è stato stabilito con un adeguato supporto tecnico-scientifico ma definito sentite le regioni e le associazioni nazionali professionali e sindacali di settore. Ferma restando la validità della partecipazione delle suddette associazioni nel processo decisionale, noi riteniamo indispensabile che i periodi di fermo vengano stabiliti sulla base di accurate evidenze scientifiche che tuttavia non penalizzino la sostenibilità economica che invece nel lungo periodo ne risulterebbe incrementata. Il mare Adriatico è uno dei più esposti al rischio del collasso delle risorse marine. In questo bacino, dove Chioggia rappresenta la maggiore marineria peschereccia dell’Adriatico, gli indici rilevati sono drammatici: nel 1948 la cattura media per chilometro quadrato era di 480 chili, nel 1998 è scesa a 180 chili e non è più risalita. Per questo proprio a Chioggia è stata effettuata, grazie al progetto GAP2, una collaborazione pescatori-ricercatori che ha permesso di valutare l’efficacia del fermo biologico, normalmente in vigore per circa 40 giorni compresi tra fine luglio ed inizio settembre. Anche alla luce dell’analisi dei dati risultanti dal progetto di cui sopra, la pesca sarebbe più redditizia e maggiormente eco-compatibile se il fermo biologico fosse reso obbligatorio da metà luglio e metà settembre. Lo «stop» nelle catture per un periodo superiore consentirebbe infatti l’accrescimento delle specie ittiche e della loro taglia, producendo anche un maggiore guadagno in termini economici per i pescatori; inoltre una riduzione dello sforzo di pesca nel periodo del fermo tecnico successivo (8-10 settimane) eviterebbe di far crollare i prezzi alla vendita del prodotto, permettendo anche uno sfruttamento più razionale in relazione al rapido accrescimento delle fasi giovanili generalmente sfruttate in tale periodo.
Risulta poi fondamentale impegnarsi nelle competenti sedi comunitarie affinché i Paesi del vicinato, che condividono bacini marini con Paesi membri, e soprattutto i Paesi di più recente adesione quali la Croazia, contribuiscano anche loro alla tutela delle risorse condivise dell’Adriatico ai fini del ripopolamento degli stock ittici, stabilendo misure complementari a quelle adottate a livello nazionale dall’Italia.
I pescatori di pesce spada con i palangari ci hanno anche segnalato che raggiunto le quote di pesca sui tonni, per evitare verbali e sequestri, DEVONO ributtare a mare decine e decine di tonni che arrivano sottobordo ormai senza vita, sono costretti a tagliere la lenza e lasciarli affondare, chiaramente il trattenere quei pesci farebbe scattare verbali pesanti da parte della CP. Per evitare questo occorre utilizzare sistemi di pesca più selettiva.