La questione per me è semplice, il consumatore deve poter sapere al momento dell’acquisto da dove vengono le materie prime che compongono il prodotto agroalimentare e dove è stato fatto. La cosa però è più complessa di queste quattro parole.
In primo luogo bisogna chiarire la differenza tra il concetto di “etichettatura” e “made in”. L’etichettatura dei prodotti è un insieme di regole (europee) che mirano a garantire che i consumatori dispongano di informazioni complete sul contenuto e sulla composizione dei prodotti, allo scopo di tutelarne la salute e gli interessi, altre informazioni possono riguardare una qualità particolare del prodotto, come l’origine o il metodo di produzione. L’etichettatura è esclusiva materia dell’unione e tutte le modifiche e le discussioni vanno affrontate a questo livello, ad oggi, l’ultima disposizione organica è il Reg. 1169/2011. Con “made in” si fa riferimento ad una proposta di regolamento che ha la finalità di introdurre alcuni obblighi legati all’origine sia ai fabbricanti che agli importatori. Questa proposta però non ha trovato consenso e il Consiglio europeo il 4 dicembre 2014 ha affossato la proposta. Con il termine made in Italy ci si riferisce all’origine, in questo caso italiana, di un prodotto secondo il codice doganale comunitario, art. 23 e seguenti.
Per i prodotti agroalimentari, si capisce subito che vi puo’ essere un legame tra gli ingredienti ma non è detto che un prodotto “made in Italy” abbia solo ingredienti italiani. Facciamo un esempio, l’Italia produce solo un terzo dello zucchero che consuma, questo che vuol dire? che due terzi dei dolci italiani non sono italiani? Per questo, occorre un evoluzione della materia etichettatura, sulla quale sia possibile esplicitare chiaramente anche da dove derivano gli ingredienti senza confondere questo con il concetto di “made in Italy”, anche perchè sarebbe assurdo e dannoso per le nostre produzioni.
Su alcuni prodotti particolari si può’ indicare origine e la provenienza geografica e questo perché presentano delle caratteristiche distintive rispetto ad un prodotto della stessa specie merceologica. In questo caso rientrano le denominazioni d’origine, ossia i prodotti DOP e IGP, per i quali l’utilizzo del “nome del prodotto” e della “provenienza” (es. Prosciutto di Parma) viene protetto su tutto il territorio unionale o nei paesi terzi con i quali si sono stipulati determinati accordi commerciali. Anche su questo però occorre fare chiarezza e distinzione. L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari a denominazione di origine e a indicazione geografica riconosciuti dall’Unione europea, nello specifico 269 prodotti DOP,IGP,STG e 523 vini DOCG, DOC, IGT. La caratteristiche di questi prodotti è che seguono un disciplinare, ovvero un insieme di regole per la loro produzione. Su questo si deve fare molta attenzione perchè vi sono notevoli differenze.
Le DOP sono le denominazioni di origine protetta, affinché un prodotto sia DOP, le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione devono avvenire in un’area geografica delimitata. Un esempio è il disciplinare del Parmigiano Reggiano, dove si legge tra le altre cose che la zona di produzione comprende i territori delle province di Bologna alla sinistra del fiume Reno, Mantova alla destra del fiume Po, Modena, Parma e Reggio nell’Emilia e il latte deve essere crudo, parzialmente scremato, proveniente da vacche la cui alimentazione è costituita prevalentemente da foraggi della zona d’origine. Quindi vediamo che vi è il legame non solo con il territorio per la lavorazione ma anche per l’approvvigionamento delle materie prime. Altro esempio è il Prosciutto di Parma. Nel disciplinare si legge che la zona tipica di produzione comprende il territorio della provincia di Parma (regione Emilia-Romagna – Italia) posto a Sud della via Emilia distanza da questa non inferiore a 5 chilometri fino ad una altitudine non superiore a 900 metri, delimitato ad est dal corso del fiume Enza e ad Ovest dal corso del torrente Stirone. La materia prima invece proviene da un’area geograficamente più ampia della zona di trasformazione, che comprende il territorio amministrativo delle seguenti Regioni: EmiliaRomagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio.
Differente è invece la IGP , che viene attribuito a quei prodotti agricoli e alimentari per i quali una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica dipende dall’origine geografica, e la cui produzione, trasformazione e/o elaborazione avviene in un’area geografica determinata. Ad esempio la IGP del nostro Prosciutto di Norcia indica che l’elaborazione deve avvenire nella zona tradizionalmente vocata comprendente i comuni di Norcia, Preci, Cascia, Monteleone di Spoleto, Poggiodomo, nei territori posti ad altitudine superiore ai 500 m.s.l. e non vi è limitazione geografica all’origine dei suini. Un altro esempio che mi piace ricordare è il disciplinare della Piadina Romagnola. Nel teso si legge che la zona di produzione è una serie di comuni ma, la cosa interessante è che sulla materia prima principale, la farina di grano tenero, non vi è indicata la provenienza. Anche l’IGP della Mortadella Bologna ci dice che la zona di produzione è Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte, provincia di Trento, Toscana, Marche e Lazio, mentre non vi è nessuna indicazione per la provenienza della materia prima.
Una menzione particolare va fatta per i vini dove troviamo DOCG, DOC e IGT. Il nome della DOCG è indicato obbligatoriamente in etichetta e consiste o semplicemente nel nome geografico di una zona viticola (ad esempio Barolo, comune in provincia di Cuneo o Carmignano, comune in Provincia di Prato), o nella combinazione del nome storico di un prodotto e della relativa zona di produzione (ad esempio Vino Nobile di Montepulciano, il nome con cui è noto storicamente il vino prodotto a Montepulciano, inprovincia di Siena). Con l’acronimo DOC, si certifica la zona di origine e delimitata della raccolta delle uve utilizzate per la produzione del prodotto sul quale è apposto il marchio. I requisiti di base per il riconoscimento di un vino IGT è riservato ai vini la cui produzione avviene nella rispettiva indicazione geografica, le uve da cui è ottenuto provengono per almeno l’85% esclusivamente da tale zona geografica, con indicate le caratteristiche organolettiche. I requisiti sono meno restrittivi di quelli richiesti per i vini a denominazione di origine controllata (DOC). L’IGT è importante in quanto è il primo gradino (della piramide) che separa il vino senza indicazione (da tavola) dal vino con indicazione. Dal 2010 la classificazione IGT è stata ricompresa nella categoria comunitaria IGP (così come la DOCG e la DOC nella DOP).
Arriviamo all’ultimo argomento del post: l’italian sounding. Gli USA ad esempio producono il Parmesan, in Brasile spopola il Parmesao, in Argentina il Regianito, solo per citarne alcuni. Questo che sta a significare? Sicuramente che c’è tanta voglia di Italia nel mondo. Ma la nostra produzione puo’ soddisfare tutto il mercato? Oggi la produzione di Parmigiano, come si legge dai dati del consorzio è sopra le 3milioni di forme, ma noi saremo in grado di farne 6milioni se il “mercato” ce le chiede? Oppure se il mercato ci chiede più “Prosciutto di Parma”, accettiamo di avere più stalle di suini in Italia? Stessa cosa per l’olio di oliva extravergine. L’Italia non è autosufficiente per il 40% e per questo ne importiamo così tanto (e saperlo in etichetta è essenziale), pertanto se ne vogliamo produrre di più occorre fare nuovi oliveti.
Stesso discorso per il grano per la pasta e per tanti altri prodotti ma, se il nostro paese decidesse di sopperire al fabbisogno di vino, e quindi dare vita a nuovi vigneti, non ci sarebbe posto per nuovi oliveti o nuovi campi di grano. Le nostre risorse, la terra, sono limitate dobbiamo rendercene conto. Forse quando un prodotto è terminato per esaurimento delle risorse occorre dire <<non ce n’è più>> invece di cercare materie prime ovunque pur di vendere. Per questo credo che il nostro export abbia un massimo e non possa crescere all’infinito a meno che, per vendere all’estero, decidessimo di non mangiare più le <<cose nostre>>. Ovviamente tutto questo va affrontato anche sotto il profilo economico. Dobbiamo però essere trasparenti senza fare demagogia, tenendo conto che siamo, come Paese, sia produttori che trasformatori, il caffè italiano è famoso nel mondo come il cioccolato, ma non mi risulta che abbiamo ne piantagioni di caffè ne di cacao.
Spero che questo post vi abbia fatto riflettere e diventare consumatori più consapevoli.