Con i post precedenti ho introdotto il tema del commercio internazionale e degli scambi commerciali evidenziando sia i pro che i contro: grandi opportunità ma anche tanti rischi. Questo articolo lo voglio dedicare al vino e ad un accordo importante di qualche anno fa, con il quale, molte denominazioni di vino (non tutte) italiane ed europee in generale, sono state riconosciute negli USA insieme ad alcune tecniche di cantina.
Il 10 marzo 2006 è entrato in vigore l’Accordo concluso tra la Comunità Europea e gli Stati Uniti d’America sulla commercializzazione del vino approvato mediante la decisione del Consiglio n. 2006/232/CE, assunta il 20 dicembre 2005 .Tale trattato che non intende pregiudicare i diritti e gli obblighi delle parti derivanti dalla loro adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio ha per oggetto varie questioni cruciali per gli scambi commerciali di vino tra i due contraenti: le pratiche di cantina, la tutela delle denominazioni d’origine, l’etichettatura, la certificazione del prodotto e le modalità di espletamento per le relative incombenze burocratiche.
Le tecniche di cantina e le tecniche enologiche rappresentano le modalità con cui viene prodotto il vino, spesso comportanti l’utilizzo di additivi, talora suscettibili di lasciare residui nella bevanda finale (uno per tutti, l’anidride solforosa utilizzata come conservante). Inoltre, se la qualità di un vino discende soprattutto o, addirittura, unicamente dall’insieme dei trattamenti somministrati durante la sua lavorazione, al punto da fargli perdere o rendere molto labile il collegamento con le caratteristiche dell’uva pigiata, insorge il rischio per il consumatore di essere tratto in inganno sulle reali qualità del prodotto acquistato. La legislazione su tale materia persegue la una duplice finalità: tutelare sia la salute sia l’interesse economico del consumatore.
Già la convenzione di Parigi del 20 marzo 1883 sulla proprietà industriale si menzionava esplicitamente le indicazioni di provenienza, come segno oggetto di tutela, così riconoscendo che anche le denominazioni d’origine potevano costituire l’oggetto di proprietà industriale. Quindi già da allora il tema dell’indicazione d’origine era in discussione. In campo vinicolo, in Italia (e sostanzialmente nei paesi europei) per denominazione di origine dei vini si intende il nome geografico di una zona viticola particolarmente vocata, utilizzata per designare un prodotto di qualità e rinomato, le cui caratteristiche sono connesse all’ambiente naturale ed ai fattori umani. Dal canto loro, gli USA hanno invece sempre respinto l’idea del riconoscimento del binomio prodotto-territorio, ritenendo invece più giusto che fosse valorizzato l’elemento della « reputazione », ovvero della percezione, da parte del pubblico dei consumatori, di ciò che un certo prodotto è. Secondo siffatta antitetica impostazione, pertanto, è rilevante non il nome geografico, ma la percezione che ne hanno i consumatori. Di conseguenza, se i consumatori non abbinano ad un determinato nome geografico né un territorio, né una tipologia di prodotto, viene meno la ragione stessa della protezione della sua provenienza, proprio perché quest’ultima risulta di per sé irrilevante nella scelta dell’acquirente. Nel 1994 con la sottoscrizione degli accordi Trips (Trade – Related Aspects of Intellectual Property Rights) è stato riconosciuto quale diritto della proprietà intellettuale anche le indicazioni geografiche. In attuazione degli accordi Trips, l’Italia ha provveduto all’adeguamento della propria legislazione interna, anche con riferimento alla disciplina delle indicazioni geografiche, mediante il d. lgs. 19 marzo 1996, n. 198 (122). Tale provvedimento contempla una definizione di indicazione geografica che accoglie il collegamento tra prodotto, territorio, fattori umani naturali e tradizione ad essa connessi.
Con l’ultimo accordo, quello del 2006 sopra richiamato, gli USA si sono obbligati a modificare lo status giuridico di taluni «termini » (che, in realtà, rappresentano per gli europei importanti indicazioni geografiche), in modo da produrre un effetto equivalente a quello che si avrebbe trasferendo tali «termini » dalla menzionata classe dei « nomi di significato geografico semi-generico » ai « nomi di significato geografico non-generico » . Inoltre, gli Stati Uniti si sono obbligati a stabilire convenzionalmente che un’altra serie di « nomi » (corrispondenti a denominazioni molto significative per i produttori europei) potranno essere utilizzati soltanto per designare vini originati nelle zone indicata da tali nomi: in pratica, anche per questi ultimi viene applicata la disciplina americana sancita per i « nomi di significato geografico non-generici », e ciò al di là della loro formale classificazione. (per maggiori approfondimenti).
Molte sono le denominazioni unionali riconosciute ma talune ancora sono in una fase di limbo. Queste sono elencate all’Allegato II dell’accordo e per le quali c’è un impegno in un futuro a riconoscerle, nomi che riportiamo per completezza: Burgundy, Chablis, Champagne, Chianti, Claret, Haut Sauterne, Hock, Madeira, Malaga, Marsala, Moselle, Port, Retsina, Rhine, Sauterne, Sherry e Tokay.