Il negoziato sul “made in” è lo specchio dei rapporti di forza in Europa e l’Italia purtroppo è sempre tra i “deboli”. Il nulla di fatto con il quale si è concluso il consiglio competitività di ieri ne è la dimostrazione più evidente; ma non ci sorprende. Il nostro Paese attende lo sblocco di questa misura da almeno cinque anni. L’ago della bilancia sono sempre i Paesi del nord, la Germania in testa, che se non trarrebbero oggettivi danni da un si al “made in” limitato a qualche settore, come proposto dalla presidenza lettone che vorrebbe l’obbligo di indicazione dell’origine sulle calzature e le ceramiche, lo vedono però come un pericoloso precedente estendibile nel tempo ad altri settori nei quali molto del lavoro è delocalizzato in Asia; penso all’elettronica e alle auto per esempio. La questione del ” made in” è veramente paradossale. Il mondo delle imprese e quello dei consumatori lo vogliono fortemente eppure a prevalere sono sempre dinamiche di natura ” clientelare” su pressioni di poche ma potentissime lobbies.
A questo punto, visto lo stallo, non siamo neanche più convinti della bocciatura della proposta di Riga, seppur considerandola un compromesso al ribasso. Visto il danno economico procurato ogni anno dal mercato del falso nel settore calzaturiero, per il quale l’Italia è uno dei “big” a livello mondiale, forse sarebbe stato meglio ” accontentarsi”. Almeno avremmo sbloccato la situazione. A volte poco è meglio di niente, perchè il negoziato sul made, almeno ad oggi, è destinato a non conseguire alcun risultato, eccetto di quello di comunicare alla gente che se ne sta parlando. Forse non è più sufficiente.
Non oso immaginare l’entrare in vigore il TTIP; la scommessa la possiamo fare non sugli eventuali “danni” ma sul tempo che questo trattato ci impiegherebbe a distruggere le nostre realtà.